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Maracanà: una bolgia di fascino e storia
17 giugno 2013, 11:14 am
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Il Maracanà a Rio de Janeiro

SPECIALE CONFEDERATIONS CUP – Le religioni hanno i loro templi e le loro cattedrali, che spesso rivelano forme maestose, strabilianti, il tutto per accogliere al meglio il senso del culto. Nel più eretico mondo di tutti i giorni lo sport è culto popolare, e se si parla di Brasile il pallone ne è il simbolo indiscusso. Ecco che allora come ogni sacralità che si rispetti, oltre ad avere la sua fede ed i suoi riti, anche il pallone ha il suo tempio. Quando si parla di Maracanà si fa riferimento a tutto questo: un luogo dove il mito trova sfogo.
L’Estádio Jornalista Mário Filho, questo il suo nome, è lo stadio per eccellenza di Rio de Janeiro, ed insieme alla “Bombonera” di Buenos Aires sicuramente il più leggendario del Sud America. Il sapore epico del Maracanà, oltre al fatto di essere lo stadio delle quattro principali squadre brasiliane, e per questo teatro di derby infuocati, è stato alimentato dagli anni ’50 e per i decenni successivi per il fatto di essere lo stadio più capiente del mondo. Nato per ospitare i mondiali del 1950, il Maracanà aveva praticamente tutti posti in piedi e il flusso di gente che lo popolava era incredibilmente al limite della sua sopportazione. Il termine “bolgia” riferito ad uno stadio probabilmente per quello che era il Maracanà negli anni ’50, ’60 e ’70 pare poco. Non si è mai arrivati ad un numero ufficiale, ma si stima che lo stadio abbia accolto più di 160.000 tifosi, con punte a sfiorare i 200.000 (due volte e mezzo San Siro). Con gli anni ovvie ragioni di sicurezza hanno portato ad una ristrutturazione radicale del Maracanà, che nei prossimi mondiali ospiterà poco più di 78.000 spettatori, incredibilmente tutti con posti a sedere. Questo ultimo aspetto, che sembra essere normale, a detta di molti brasiliani che hanno vissuto e respirato negli anni dentro lo stadio, il fatto di poter entrare con un posto assegnato (e sedersi) pare quasi una rivoluzione. Lo scorso 30 maggio si è tenuta la prima partita nel nuovo Maracanà: l’amichevole tra Brasile Inghilterra, finita con un pareggio. Il match settimane prima fu anche a rischio perché la Fifa non riteneva ancora pronta la struttura in termini di sicurezza, poi tutto è andato a buon fine. La prima partita ufficiale è stata la vittoria degli azzurri contro il Messico ieri sera, valevole per la Confederations Cup. La gestione del Maracanà è affidata ad un consorzio privato con a capo il miliardario brasiliano Eike Batista, patron di una holding che gestisce cinque aziende che hanno avuto un ruolo fondamentale in molti settori del Paese, come per esempio nella progettazione del complesso portuario più grande del Sud America, oppure nella gestione del primo impianto solare del Brasile. Ci sono stati anche malumori per il passaggio in mano privata (con un contratto per i prossimi 35 anni) del Maracanà, sempre stato pubblico. La sacralità di un tempio è pur sempre da rispettare. Botafogo, Vasco da Gama, Fluminense, e Flamengo sono le squadre del Maracanà, stadio che ha ospitato i più grandi talenti calcistici del mondo. L’elenco sarebbe infinito: Zico, Jair, Socrates, Romario, Ronaldihno sono solo alcuni. Roba da alieni, insomma. E poi il più “santone” di tutti, Pelè, che nel novembre del 1969 con la maglia del Santos segnò al Maracanà il millesimo gol in carriera. Un fascino ed una storia senza eguali, un teatro con gli attori più talentuosi che ci siano. La finale dei prossimi mondiali sarà proprio nel nuovo Maracanà, e già i tifosi brasiliani fanno gli scongiuri: nella finale del 1950 infatti ci fu la sconfitta dei verde oro, battuti dall’Uruguay. Il Maracanà alla fine è luogo che rimanda a pensieri e suoni unici, quei suoni che anche dopo le odierne ristrutturazioni si possono comunque sentire ancora provenire da quei 200.000 spettatori, uniti in una bolgia colossale a cantare e ballare di fronte allo sport più bello del mondo. (Alberto Lucchini)



Le geometrie di Socrates tra calcio e politica

Le figurine di TMB, personaggi protagonisti del pallone: Socrates / 1

“Giocavo a calcio, ma stavo anche per diventare medico. Se non avessi studiato Medicina sarei stato un giocatore più limitato”. Alla fine dottore lo è stato solo sulla carta, mentre il pallone lo ha trattato seriamente diventando uno dei centrocampisti più forti di tutti i tempi. Parliamo di Socrates, uno che giocava al calcio con una laurea in Medicina in tasca e sfoggiava magliette con scritto “democracia” mentre il suo Brasile era sotto le regole di una dittatura militare.
Nato ad un centinaio di chilometri dalle onde dell’Oceano Atlantico nel 1954, Socrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira come la stragrande maggioranza dei brasiliani comincia fin da piccolissimo a giocare a pallone. Rispetto alla media però non abbandona gli studi e anzi arriva a laurearsi in Medicina e per questo verrà spesso chiamato doutour. Ma il soprannome non è solo un eco della sua brillante carriera universitaria. “Da me si aspettavano che fossi il più ingegnoso di tutti”, diceva. Il talento per il calcio è visibile fin da subito, tanto che la carriera da medico non l’ha mai lontanamente affrontata. Il campo, e in special modo quella zona cruciale che è il centrocampo, sarà il suo mondo. Tecnicamente molto dotato, Socrates esordisce da professionista nel 1974 nel Botafogo collezionando 57 presenze e diventando fin da subito titolarissimo. Nel 1978 la svolta: passa al Corinthians. Le sue geometrie che accendono il gioco sono il sale del suo calcio, e il bene per i suoi compagni. I pochi detrattori che ha, ma questi li troverà solo in Europa, lo accusano di essere lento. Paolo Rossi dirà: “Socrates era in effetti un falso lento: era un giocatore di non grande dinamismo, ma dal piede eccelso e soprattutto di grandissima intelligenza di gioco”. Dribbling e senso tattico fuori dal comune rendevano unico il doutour. Socrates era uomo di pensiero, e non solo riguardo alle geometrie di calcio. Pugno chiuso al cielo dopo i gol e amante di personaggi di lotta come Ernesto Che Guevara, Socrates fu attivo protagonista quando in Brasile si istaurò al potere un regime di tipo militare. Nel 1964 un colpo di Stato rovesciò l’andamento democratico del Paese e ad inizio anni Ottanta dopo svariati governi militari duri e repressivi che avevano limitato la libertà del popolo brasiliano, la situazione sociale era tesissima. Socrates nel 1982 era il leader in campo e fuori del Corinthians e quell’anno festeggiò insieme ai compagni la vittoria del campionato, un trionfo però non solo sportivo. Tutta la squadra per festeggiare infatti indossò delle magliette con la scritta “democracia”. Ma quello fu un gesto non solo simbolico. Fin dal suo arrivo nel 1978, Socrates e altri suoi compagni rivoluzionarono letteralmente i metodi di lavoro e l’ambiente del club. “Al Corinthians abbiamo cominciato a parlare di un modo diverso di vivere la realtà professionale del calcio”, spiegava in un’intervista a Repubblica. “In Brasile ai calciatori si imponeva un unico modo di lavorare, era un mondo oppressivo. Dentro il Corinthians abbiamo trovato gli spazi per non parlare solo di doveri del calciatore, ma anche di diritti. Praticamente quello che ognuno di noi giocatori, tecnici e dirigenti del club pensava, veniva discusso da tutti, e alla fine si votava e la maggioranza decideva. Per esempio l’allenatore decideva le ore di allenamento, ma eravamo noi giocatori a organizzare l’orario e decidere la sede degli allenamenti. Anche con i premi partita, a decidere non era solo il tecnico. Il premio veniva ripartito equamente tra tutti, titolari e riserve”. Quest’autentica rivoluzione passerà alla storia come “democracia corinthiana”, portando ai due scudetti consecutivi nel 1982 e nel 1983. In una società poi oppressa e priva di democrazia civile per il suo popolo, il Corinthians di Socrates con la sua “democracia” fu qualcosa di straordinario. Nel 1984, ormai consacrato e dopo un mondiale da capitano della nazionale nel 1982, arriva per lui il calcio europeo. In estate si presenta ai tifosi della Fiorentina, ed è un tripudio di entusiasmo. Le cose però non vanno per il verso giusto, e il motivo principale sembrò essere il troppo stress e i carichi di lavoro del calcio italiano. “Il calcio e’ uno sport collettivo e non serve che tutti corrano. Ci sono quelli che corrono e quelli che pensano”. Lui era della seconda categoria, ma in Italia non funzionava. Aneddoti e leggende (“fumava un pacchetto di sigarette a sera”) chiusero anzitempo l’esperienza italiana di Socrates, che a fine anno tornò in Brasile. Giocando al Santos riconquista la Nazionale e ai mondiali del 1986 uscirà ai quarti di finale contro la Francia di Platini (sbagliando uno dei rigori decisivi). Muore nel 2011 a 57 anni dopo svariati problemi legati all’alcolismo. Dino Zoff, beffato da una sua rete ai mondiali del 1982 nella storica sfida vinta dall’Italia 3-2, ha ricordato quel gol così: “non era facile metterla lì. Dentro quella giocata c’era dell’arte”. (Alberto Lucchini)



Il tormentone brasileiro


Chi l’avrebbe mai detto che un brano musicale potesse diventare una hit mondiale grazie agli eroi del pallone? Questo esempio di marketing involontario ha fatto conoscere al mondo Michel Telò, cantantuccio brasiliano cresciuto nella regione del Paranà, uno dei tanti menestrelli che invade con i suoi cd rom un movimento musicale brasiliano pieno zeppo di piccoli talenti disposti in ogni angolo della nazione, da Belèm a Porto Alegre, ma senza mai raggiungere la grandezza dei vari Toquinho o Joao Gilberto, veri Pelè della musica carioca. Michel Telò deve ovviamente ringraziere i connazionali sparsi per il mondo che indirettamente l’hanno reso un illuminato nel vero senso della parola. Primo fra tutti lo “Scapigliato” Neymar che ha sconvolto il mondo del web danzando in maniera provocatoria la canzone dal titolo “Ai se eu te pego”-” Ah se ti prendo!” Dal lontano Brasile, la moda si è spostata nella vecchia Europa, lanciata in una temperata notte andalusa dal portoghese Cristiano Ronaldo, che insieme al compagno di squadra Marcelo ha festeggiato il suo gol contro il Malaga agitando il bacino con movimenti pelvici degni del miglior Elvis Presley. Così pure il difensore brasiliano dell’Arsenal Andrè Santos che, dopo aver segnato il gol del pareggio contro i cugini del Chelsea, ha festeggiato danzando e cantando sulle note del brano. Il passaggio inaspettato è avvenuto in Germania. Infatti per festeggiare la rete al Werder Brema, il Borussia Mönchengladbach coreografato da Marco Reus si è inventato l’ennesimo colpo di teatro.
E finalmente in Italia, con il trio delle meraviglie rossonero Pato, Robinho e Thiago Silva . Prima vediamo immagini avvolte nella nebbia di Milanello durante l’allenamento, ma questo è solo la premessa allo spettacolo. Li ritroviamo infatti agitarsi come matti in treno di ritorno dalla nervosa trasferta di Firenze! Polemiche in arrivo..? il Milan a passo di samba fa davvero paura..! (G.F.)