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Libero di essere Johan Cruijff in tutto il mondo e oltre


Quando devi fare un pezzo su un mito, devi stare attento. Da una parte racconti la vita e le imprese, dall’altra ci metti del tuo, poi ancora lo colori e lo fai vivere negli occhi di chi legge. E non devi sforare le tremilacinque/quattromila battute, sennò chi ti legge. Per questo quando pensi a Johan Cruijff ti rendi conto che sarebbe meglio scrivere un libro in cui ogni capitolo sarebbe una sorpresa. E anche in quel caso alla fine dovresti tagliare, perché Cruijff è tanto, forse troppo per essere rinchiuso in un mucchio di parole.
Hendrik Johannes, detto Johan, nasce ad Amsterdam il 25 aprile del 1947. E per raccontarne la molteplicità si potrebbe partire dal suo cognome: Cruijff in Olanda, spesso Cruyff, con la “y”, fuori dai Paesi Bassi. Due cognomi e mille storie, ma sempre colori sgargianti: prima il biancorosso dell’Ajax, poi il sorridente arancione della Nazionale olandese, quindi il naif blaugrana del Barcellona e il giallorosso dell’amata Catalogna. Uno dei più grandi calciatori di sempre, tanti personaggi e battaglie che hanno caratterizzato un’epoca a partire da quell’aspetto beat che fotografa nel migliore dei modi i favolosi anni ’60. E’ il 1964 quando il diciassettenne Johan fa il suo esordio nell’Ajax e in quel momento prende il via una storia incredibile. Ma l’elenco dei trofei e il numero di reti di Cruijff non bastano a trasmetterne la grandezza. Meglio pensare al nuovo prototipo di calciatore che nasce proprio con lui e il dibattito sul suo ruolo potrebbe andare avanti ore e ore senza risposte definitive. Non è un centravanti, non è un trequartista, non è una mezzala, non è un’ala, non è un fantasista: no, Cruyff è tutto. Imposta, è veloce come il rock’n’roll, disegna calcio come Salvador Dalì, è il più bello di tutti senza essere bello. Il fatto che segni montagne di gol e vinca campionati, Coppe dei Campioni e Palloni d’Oro a raffica risulta quasi banale se non volgare. E quando vinci tutto ma non sono le tue vittorie a definirti, significa che sei un mito. Nel bene o nel male, direbbe qualcuno, ma anche in questo caso Cruijff sbaraglia le categorie: esiste solo lui, quello che vuole e che, puntualmente, ottiene. Come nel ’73, quando l’Ajax lo vende al Real Madrid ma lui non ci vuole andare. Lui vuole il Barcellona. Braccio di ferro (oltre che di pesetas e di fiorini sul tavolo) e alla fine la spunta Johan, che esordisce in ottobre con il Barcellona penultimo in classifica: ovvio, alla fine è vittoria della Liga che in Catalogna non arrivava dai tempi di Herrera e Suarez. Nel frattempo c’è l’Arancia Meccanica con il Calcio Totale e lui diventa “Olandese volante” per un fantasmagorico gol di tacco in acrobazia all’Atletico Madrid. Si innamora perdutamente della Catalogna e chiama il figlio Jordi in onore del santo patrono di Barcellona, ma Hennes Weisweiler, tecnico subentrato al suo secondo padre Rinus Michels, non lo coccola abbastanza. Capricci e pugni sul tavolo, Michels viene richiamato ma la storia a Barcellona dopo 5 anni e 48 gol è ai titoli di coda. Cruijff, a soli 31 anni, non ne ha più voglia e solo gli States lo fanno sorridere: Los Angeles prima, Washington poi, quindi ancora Spagna col Levante, di nuovo Ajax e, infine, Feyenoord, con cui vince l’ultimo campionato olandese da libero, in campo e nella vita.
Libero di sbattere la porta in faccia ai Mondiali del ’78 in Argentina in segno di protesta contro la dittatura militare di Videla, libero ai Mondiali del ’74 di togliere una delle tre strisce Adidas dalla maglia Orange in quanto uomo Puma, libero di tirare un calcio di rigore come mai nessuno aveva pensato di fare, quando nell’82 invece di tirare in porta dal dischetto insacca dopo un impensabile scambio stretto con un compagno, libero di indossare la sua maglia 14 sotto la 9 del Barcellona perché in Spagna era consentita solo la numerazione dall’1 all’11. Libero, insomma, di essere Cruijff o Cruyff, con il 14 o con il 9, tre volte Pallone d’Oro nonostante fosse stato scartato dal servizio militare per i piedi piatti e una caviglia sformata.
Servirebbe un libro, l’indimenticabile Sandro Ciotti ha voluto per lui un film, “Il Profeta del Gol”, addirittura un planetoide è stato ribattezzato con il suo nome. (Marco Vailati)



La rivoluzione olandese
27 marzo 2012, 10:50 am
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Ci sono storie che fanno grandi le squadre, come lo Zambia di Herve Renard all’ultima Coppa d’Africa (vedi Il sogno e la memoria di Herve Renard), oppure ci sono grandi squadre che fanno la Storia. Squadre che presentano al mondo idee diverse, mentalità nuove, all’interno di quello stesso spazio utilizzato da migliaia di altre formazioni che è un campo da calcio. Una di queste squadre è stata l’Olanda di Johan Cruijff.
Tutto inizia nel 1969, quando l’Ajax di un giovanissimo Cruijff (22 anni) arriva in finale di Coppa Campioni contro il Milan del “golden boy” Rivera. Un traguardo importante per il calcio olandese, che mai prima di allora aveva presentato una sua squadra in una finale così importante. In panchina c’era Rinus Michels, allora tecnico quarantunenne dei “Lancieri”. Michels porta i suoi alla finale mostrando un calcio innovativo rispetto al passato, fatto di tecnica e pressing. Il Milan di Rocco e Rivera avrà però la meglio contro i giovani olandesi e si porterà a casa la Coppa. L’anno seguente la finale si gioca a San Siro. Ad arrivare in fondo è ancora una squadra olandese, il Feyenoord, che questa volta vince contro il Celtic, portando il trofeo più importante a livello di club in Olanda per la prima volta nella Storia. Germogli di un’idea di calcio che nasce ad Amsterdam, passa per Rotterdam e arriverà come naturale esplosione alla nazionale olandese.
L’Olanda si presenta ai mondiali del 1974 allenata da quel Rinus Michels che aveva portato anni prima l’Ajax ad essere vice campione d’Europa. Il torneo mostra una nazionale mai vista prima di allora, a cominciare dal portiere Jan Jongbloed, che con il numero 8 sulle spalle suscitava già curiosità, in un’epoca dove 1 e 12 erano naturalmente i numeri del ruolo. Jongbloed incarnava lo spirito della sua nazionale: giocava molto con i piedi, mai un lancio lungo, e a volte lo si vedeva trasformarsi quasi da ultimo difensore, ricorrendo spesso a uscite avventurose. Poi c’erano i laterali: Wim Suurbier e Ruud Krol in difesa, Johnny Rep e Rob Rensenbrink in fase offensiva. La peculiarità dell’Olanda di Michels però era una perpetua sovrapposizione dei giocatori, da terzini ad ala e viceversa. Un concetto al giorno d’oggi ormai assimilato ma che all’epoca fu novità assoluta. Altra caratteristica che da quel momento in poi sarà ripetuta da migliaia di squadre erano gli inserimenti dei centrocampisti, che non erano quindi solo un filtro tra difesa ed attacco, ma spesso loro stessi terminali offensivi. Ne è l’esempio lampante il centrale di quell’Olanda Johan Neeskens, che alla fine del torneo segnerà 5 gol, uno in più della storica punta tedesca Gerd Muller e due in più del genio olandese Johan Cruijff. Con il 14 sulle spalle, che l’Ajax dove era calcisticamente cresciuto ritirerà al suo addio al calcio, Cruijff era colui che tra dribbling e giocate geniali tramutava in oro tutti i palloni che riceveva. Tre volte pallone d’oro, era il capitano e assoluto trascinatore della nuova Olanda di Rinus Michels, che per la sua vocazione a tenere sempre palla facendo partire l’azione fin dal portiere, il continuo cambio dei ruoli (con le sovrapposizioni dei laterali e gli inserimenti dei centrocampisti), divenne il maestro di quello che sarà il calcio totale, una filosofia di intendere il gioco che farà scuola da quei mondiali in poi. L’Olanda arriva in finale ed incontra la Germania Ovest di Franz Beckenbauer, espressione di un calcio solido e più bloccato nei ruoli rispetto ai rivoluzionari olandesi. Le due filosofie di calcio si scontrano: possesso palla “orange”, difesa e ripartenze tedesche. Avranno la meglio i secondi e Gianni Brera, strenuo sostenitore del cosiddetto “calcio all’italiana” in quegli anni espressione del Milan di Nereo Rocco, scriverà: “il presuntuoso calcio totale ha mostrato le sue pecche e il calcio difensivista i suoi pregi di modestia e di praticità. Sul gioco olandese Brera parla di “girandola continua”, “energia e divertimento da tutti i pori” e “ogni schema difensivo andava a ramengo dietro all’ispirazione e al ritmo dell’azione offensiva”. Nell’unica occasione in cui Cruijff si libera dalla marcatura di Berti Vogts, che gli starà francobollato fin dentro gli spogliatoi, si guadagna un rigore che porta il calcio totale in vantaggio. La praticità “all’italiana” tedesca recupera e al 43’ Gerd Muller fa il 2-1 che resisterà fino alla fine. Ai successivi mondali del 1978, sulla panchina dell’Olanda si siede l’austriaco Ernst Happel, vincitore otto anni prima della Coppa dei Campioni con il Feyenoord. La filosofia olandese portata da Michels rimane però intatta. Gli olandesi arrivano alla finale di Buenos Aires, ma ancora una volta perdono sul più bello. Stavolta è l’Argentina padrona di casa a superare in finale gli “orange” per 3-1.
Quei due mondiali non portarono trofei ai loro interpreti, ma lasciarono al mondo intero un modo innovativo di giocare al calcio. Ruud Kroll, giocatore di quella squadra, dirà: “l’Olanda di Cruijff è stata fondamentale. Ha scandito un’epoca, ha fissato un percorso. Non che, dopo, tutti gli olandesi abbiano giocato così, ma di sicuro a essa si sono ispirati”. Chi si è sicuramente ispirato incarnando l’essenza di quel gioco è stato Louis Van Gaal, che nei primi anni novanta con l’Ajax dei fratelli De Boer, Kluivert, Overmars, Davids e molti altri fece scuola, arrivando nel 1995 a vincere la Champions League contro il Milan di Capello. “Una squadra che si muove come un blocco unico”, dirà del suo calcio Van Gaal. Un calcio figlio della generazione di Johan Cruijff e Rinus Michels, con un portiere col numero 8 sulle spalle. Un calcio che ci mostrò una squadra che non fece la Storia per i trofei vinti ma per la mentalità con cui scendeva in campo.
(Alberto Lucchini)